Il signor Y. ha settant’anni. È arrivato oggi alle colazioni al Rifugio2, una domenica di novembre in cui il freddo ancora non si decide a fare sul serio. E meno male. Ogni anno, a novembre, per chi non ha un tetto sulla testa sta per cominciare il periodo peggiore dell’anno, ma per il signor Y. il freddo è l’ultimo dei problemi. 

La prima cosa che noto, sotto la mascherina, sono i suoi occhi inconfondibili: non capita spesso un cinese tra i nostri ospiti. All’inizio parla un italiano stentato, faccio fatica a capire quello che vuole dirmi. Poi, mentre parliamo, capisco che forse è solo molto tempo che non parla un po’ più a lungo con qualcuno. Capisce tutto quello che gli dico e dopo un po’ che parliamo si spiega anche abbastanza bene. 

Lui non sembra avere rapporti con gli altri membri della sua comunità etnica. Lui sembra essere completamente solo a questo mondo. Mi mostra le carte di un permesso di soggiorno scaduto, poi quelle delle dimissioni da un ricovero per ictus ischemico di 20 giorni fa. 

Così decidiamo di chiamare C., la nostra meraviglia di avvocata di strada, che ovviamente si infila scarpe e giacca e ci raggiunge. E che proverà ad aiutarlo a suon di scartoffie, marche da bollo, richieste di buon senso alle istituzioni, ricerca di cavilli che ad impararli le sono costati anni e anni di studio, e che lei ha deciso di usare anche così, per il signor Y. 

A gratis. Che diotibenedica C.

Il signor Y. possiede solo uno zaino Benetton, organizzato come l’archivio di una banca svizzera, che contiene tutta la sua vita. I documenti che mi mostra, per esempio, sono all’interno di un’apposita bustina di plastica. Mi mostra orgoglioso anche un sacchettino colorato, che contiene dei calzini puliti, e un altro sacchettino blu che contiene invece quelli sporchi. Una volta a settimana si ingegna per lavarli e fare il cambio. 

Poi mi indica una delle nostre piante in un vaso e mi racconta che in Cina quella pianta è usata in cucina al posto dell’aglio. La chiama col nome cinese ed è molto deluso che io non sia in grado di dirgli il nome in italiano. Mentre va verso il vaso mi accorgo che zoppica, gli chiedo come mai, e mi dice che gli fa molto male una gamba dopo l’ictus, e che da quando è uscito dall’ospedale riesce a malapena a fare cinque chilometri di camminata al giorno, mentre prima ne faceva almeno quindici.  Mi spiega che se il corpo non è sano, non puoi lavorare, e se non puoi lavorare non hai altro da fare.

Quei cinque chilometri li fa zoppicando, eppure li vuole fare, anche se probabilmente gira a vuoto perché lui non ha posti dove deve andare.

Mi racconta che faceva il cuoco, che era piuttosto bravo e mentre me lo dice, penso a quanto forti bisogna essere per mantenere una sorta di autostima, se così si può chiamare, in situazioni estreme come la sua. 

Sette anni fa ha cominciato a soffrire di patologie cardiovascolari, e non potendo più stare in piedi per molte ore, ha dovuto smettere di fare il cuoco. Mi dice che senza lavorare la sua vita non ha più alcun senso, quindi è felice di avere settant’anni perché probabilmente, tra non molto, morirà.

Il signor Y. ce l’aveva un lavoro, l’ha perso per problemi di salute. Ha una storia, delle passioni, delle competenze, dei gusti, dei desideri, le sue abitudini. 

Una vita.

È in Italia da 25 anni, 25 anni, ma ancora non ha un permesso di soggiorno, una pensione, un medico di base, che lo faccia stare un po’ più tranquillo, almeno adesso che non sta bene e non può più lavorare.

Allora io penso che nascere nel posto giusto non è solo un privilegio. 

E’ IL PRIVILEGIO. 

E finché esisteranno società in cui la differenza la fa un dato del tutto casuale, questo pianeta avrà comunque fallito.

Lisa Accordi

È solo una delle storie che raccontiamo nel nostro bilancio sociale (che trovate qui)