Capita spesso che davanti a questo cielo, a guardarmelo da quaggiù, mi senta davvero piccolo, quasi insignificante, al punto da non credere che un Dio, messo chissà dove e in quale irraggiungibile posizione, possa preoccuparsi di me, confuso in mezzo a tutta questa gente, che mi evita con disprezzo e insofferenza, perché sono un buono a nulla, un senza tetto… un senza scarpe!
Spesso mi domando cosa vedono realmente di me, gli occhi distratti di chi mi passa accanto, sfiorandomi appena e illudendosi di comprendere cosa significa resistere al niente della notte, che non ti fa mai addormentare con la speranza che sia presto domani, perché c’è un progetto da inseguire, un amore da proteggere o una speranza da ghermire. Le mie notti sono buie, fredde e inutili, piene solo di paura, perché non c’è nessuno che ti copre le spalle o ti rimbocca le coperte se hai freddo, o ti fa scalare un letto a castello e spegne la luce, dopo averti dato un bacio sulla fronte. Anche a me è successo, tanto tempo fa, che qualcuno si preoccupasse dei miei incubi, quelli che ti fanno urlare nella notte. Le ricordo ancora quelle braccia forti che mi stringevano per proteggermi dallo spavento di un mostro cattivo. Quelli erano abbracci sicuri che oggi non ci sono più… ed è per questo che non posso più permettermi sogni cattivi ad inquietare le mie notti in guerra, quando nessuno mi stringerebbe a sé per sostenere ancora il mio sgomento.
“È una sera molto fredda questa qui”, commenta il capo squadra, mentre il rombo del furgone che sta guidando squarcia il centro della città, in un venerdì di inizio inverno, dove il gelo inizia a farsi sentire sulla pelle e sembra avvisare tutti che, per un po’ di mesi, sarà lui a farla da padrone su tetti, corpi, mani e piume dei gabbiani, che sono messi in fila per farsi calore, tutti belli ordinati su un muro che dà sopra al fiume, come spettatori silenziosi del flusso regolare dell’acqua che scorre verso il mare, l’uno di fianco all’altro, restando vicini, quasi appiccicati per combattere le lame agghiacciate dell’inverno; succedesse così anche per gli uomini ci sentiremmo, forse, tutti un po’ meno soli, soprattutto quanto il gelo della solitudine ci entra nelle ossa e sporca i pensieri di malinconia di una vita, la nostra,… che corre troppo in fretta da non lasciarci il tempo di fermarsi a riflettere su noi stessi e queste ricerche affannose della felicità continua, quando c’è gente che ha nel nulla il suo universo ed è costretto a nascondersi, confondersi tra la folla di persone di ogni giorno e cercare di non commettere errori da ritorno all’inferno: il punto clandestino da cui sono partiti
Qui fa meno freddo. È un riparo temporaneo, del tutto transitorio, ma se resto rannicchiato dietro queste colonne, il vento non può raggiungermi e poi, ho una nuova coperta, bella lunga e spessa, che è servita a contenere un televisore super tecnologico, che starà facendo la gioia di occhi ammirati a guardarsi il mondo chiuso in un rettangolo, comodamente seduti sul divano. L’imballo non serve, è ingombrante e fastidioso… per loro: fortunati possessori di una nuova tecnologia da mostrare con orgoglio. Ma non per me, che ne faccio il mio riparo e la coperta di ricovero per stanotte, sempre che non mi venga rubata da qualcuno o diventi il gioco stupido di qualche branco di ragazzi, in preda all’alcol e la noia della loro banale età, che proveranno a scherzare intorno a una battuta, di quelle che fanno ridere solo chi non sa cosa vuol dire stare in mezzo al niente, e proveranno a dare fuoco al mio cartone, giustificando quell’atroce idiozia con il desiderio di regalarmi più calore… e poco importa se in quel gioco insulso qualcuno poi, in mezzo alle fiamme, ci rimette la vita, la sua… che a volte vale davvero meno di un cartone, per noi che siamo senza un tetto per dormire, senza un’identità per raccontarci e scarpe di ricambio per sparire.
Tra un po’ faremo la prima tappa di questa serata all’insegna della carità e il conforto, dove c’è chi ci aspetta per un pasto caldo, un maglione che protegga dal gelo e un giubbotto che tenga al chiuso il cuore dall’inverno di questa notte scura, che cade addosso con tutte le sue fredde stelle e si appiccica al fiato in gola, rendendolo una nuvola, come in un fumetto, ad ogni respiro nuovo. È la mia prima volta ed un po’ mi sento in disagio, perché non so che fare e com’è meglio muoversi e accelerare, il più possibile, che c’è tanta altra gente che ci aspetta qualche incrocio più in là dalla nostra prima stazione di consegna dei pasti caldi. Ci dividiamo le mansioni e ai più esperti tocca riempire i piatti di pasta e dispensare qualche parola di conforto. A me, invece, mi è stato affidato il compito di consegnare le bevande e il pane, e come un soldato saprò svolgere il mio incarico, perché ho nel cuore il desiderio di confrontarmi con chi va guardato fisso negli occhi, per non mostrare debolezze o troppa pena, nell’inesorabile sfida che si stabilisce tra chi riceve e chi, invece, dona.
Tra un po’ arrivano i miei amici. È meglio che mi porti al punto di raccolta, che anche a ricevere la carità bisogna stare sempre svegli e in prima linea, se non vuoi che ti riservino gli scarti di un’elemosina, necessaria solo a sopravvivere e mendicare per un’altra notte ancora.
C’è già qualcuno lì che aspetta. Sono i soliti sbandati, un gruppo di clandestini, figli di terre caotiche, in guerra da sempre contro tutto e tutti quelli che calpestano la storia di un comunismo miseramente tramontato ad Est, o che nell’indignazione legittima l’estremismo assurdo in una religione del terrore. Sono senza ritegno, violenti e arrabbiati col mondo, che quasi pretendono di ricevere ciò che non gli è obbligato dare, ma se ti ribelli o provi ad alzare la voce, ti ritrovi un coltello alla gola o senza più una coperta di cartone con cui resistere alla notte.
Ne ho visti tanti di occhi disperati e barba incolta, che si azzuffano per una coperta o un paio di scarpe vecchie, che venderanno il giorno dopo per comprarsi sigarette o l’ennesima bottiglia di alcol, che scalda il sangue nelle vene ma ubriaca anche i pensieri e fa parlare a vuoto. Sono uomini che non hanno storia e non sanno quanto sia inglorioso ritrovarsi come casa un ponte o esiliati nel centro esatto di un dolore, senza nessuno che ti chieda mai perché hai scelto quella libertà, che è la tua più grande condanna da scontare a vita sotto al cielo.
Mi chiamano il professore, perché chiedo sempre con rispetto e ad occhi bassi. Mi vergogno di quello che sono adesso, ma non posso rifiutare il loro aiuto perché ne morirei.
Ero un padre di due figlie ed un marito rispettoso. Insegnante di latino e con tanti sogni da afferrare. Ero felice. Mi ritenevo appagato di ciò che mi ero conquistato e indispensabile per la mia famiglia, ma mi sbagliavo. Ero solo un dito nell’acqua, che una volta tolto ci ha messo niente a riempire quel vuoto che ho lasciato. Sono stato un presuntuoso e non ho fatto i conti con una ladra di destini. Una sporca mentitrice di guadagno, che ad ogni nuovo tentativo mi impoveriva sempre più della mia vita. Me la sono giocata a sorte la mia famiglia, e con lei il mio lavoro, la dignità, il rispetto di una moglie e l’affetto delle figlie. Sono finito per la strada, senza neppure accorgermi di quanto stesse precipitando giù la vita mia. Solo, nel cuore della notte, senza più un’aula in cui parlare, una tavola attorno alla quale raccogliersi a mangiare ed un letto in cui riposare le stanchezze di giornata. E tutto questo per colpa di una maledetta slot machine, che mi ha rubato dal cuore ogni battito di vita, consegnandomi alla strada come un sacco di immondizia.
Poi son finito in un centro di raccolta, di quelli che chiamano dormitorio, ma è solo una cella di una prigione a porte aperte, dove ogni notte entravo per dormire, fino a quando qualcuno mi ha rubato le scarpe e dalla rabbia ho reagito di violenza, perdendo il mio posto letto, il pasto caldo e il diritto ad un tetto contro la pioggia ed il freddo. Espulso da quel purgatorio di amarezze, come un ragazzo da un orfanotrofio, che si ritrova senza un cognome e un passato a costruirsi una vita dal nulla, quando non c’è storia da difendere, memoria da evocare e renderti interessante a chi ti ascolta, e per tutti sei solo un buono a nulla. Un rifiuto che non può tornare indietro e riparare gli errori commessi, anche se mi illudo che una volta toccato il fondo posso ricominciare a vivere.
Ma quale sarà il fondo per me? Ancora quanto devo scendere, prima di risalire su? E quante notti devo aspettare ancora, prima che si faccia giorno anche dentro di me?
Eccoli… i nostri amici della notte, con le loro ronde di carità e parole buone, a regalarci esili sorrisi di speranza a cui aggrapparsi, per illuderci che a qualcuno ancora importiamo qualcosa.
“Siamo arrivati, si scende. Mi raccomando, rispettati i compiti e siate veloci. Ci aspettano in altri posti e la notte è fredda e ancora lunga da passare.” E tutti giù dal furgone.
Eccoli! Sono loro gli invisibili, quelli senza nome o un posto per dormire, che si nascondono di giorno e poi, come i vampiri, escono di notte, quando la città dorme, per mettersi in fila, tutti ordinati, l’uno dietro l’altro, ad aspettare il turno per un piatto caldo e un poco di vestiti usati con cui sentire meno freddo in questa notte di dicembre. Sono di ogni età ed etnia. Parlano un italiano incerto ed incompleto, ma si fanno capire e hanno imparato presto la parola “grazie” per quello che gli viene offerto. Qualcuno urla qualcosa. L’alcol gli dà forza per minacciare qualcuno del suo gruppo, mentre pretende più rispetto e la prima scelta da un sacco pieno di maglioni usati, che si apre per loro.
C’è un uomo che sembra non appartenere all’esercito di disadattati alla vita che ho davanti. È quasi ben vestito, da confonderlo con un uomo di passaggio. La testa la tiene bassa per nascondere gli occhi spenti dall’umiliazione di chiedere la carità di un pasto caldo. Fa freddo e i miei occhialini si stanno appannando, tanto è compatto il gelo che si posa sui vetri chiari. Li pulisco velocemente, mentre do la busta dell’acqua, il the caldo e due panini a quel distino uomo di mezza età, che alza gli occhi con fatica, e con una voce appena sussurrata mi chiede se ci sono un paio di scarpe da provare.
Non so che dirgli, se non che sono nuova. Non so come comportarmi, ma mi incuriosisce quella sua richiesta, invece che volere altro pane o pasta, mi chiede scarpe nuove. Perché?
Stasera c’è una ragazzina nuova a far da volontario, tutta intirizzita, che si raccoglie nel suo giubbotto caldo. Ha gli occhiali che si appannano di continuo e mi fanno divertire, perché è buffa e un po’ impacciata, ma si percepisce che ha un cuore grande ed è qui per scelta e non l’obbligo di scontare una pena sociale o da ritiro di patente.
Le ho chiesto un paio di scarpe, forse posso intenerirla alla sua prima volta qui, ma non sa come fare per poter farmene scegliere qualcuno, e rimane con un volto scontento e l’espressione mortificata di chi non sa aiutare. Mi dispiace averla intristita, così e provo a rimediare.
“Ti sembra strana la mia richiesta, vero? Ma non è così. Credono tutti che un vagabondo abbia ben altre necessità che un paio di scarpe usate, ma tu immagina a camminare a piedi scalzi, infreddoliti per la pioggia o il gelo che sale dall’asfalto e ti ghiaccia il cuore. Non vai lontano, e se resti immobile diventi preda facile da braccare e poi stanare. Ti puoi difendere dal freddo, la pioggia e il caldo, ma non dai piedi scalzi che non ti fanno andare da nessuna parte.”
Mai avrei creduto che un paio di scarpe consumate fossero tanto ambite da un uomo della notte, che sta mangiando in disparte, sempre con gli occhi bassi e un viso asciutto, di chi non ha niente da raccontare su se stesso e i suoi giorni sempre tutti uguali. Chiedo al capo squadra se posso prendere delle scarpe da far provare all’uomo che me l’ha chieste. Lui sorride e lo chiama a sé con una voce amica e un sorriso di rispetto: “Ciao professore. Vuoi un paio di scarpe nuove? Le tue sono rotte?” L’uomo appoggiato al muro conferma, dicendo di sì con la testa e punta i suoi occhi scuri dritti su di me, come a volermi ringraziare silenziosamente per quella mia attenzione, tanto minima e innocente quanto immensa e vitale per lui.
Avevo ragione a fidarmi di quegli occhialini appannati, sopra un viso dolce e sincero, che fa grande una ragazzina, quando con un semplice gesto riesce a regalarti un motivo per sorridere ancora, anche in mezzo al brutto della tua esistenza, perché qualcuno ti ha donato delle scarpe con le quali puoi sentirti più libero a consumare strade nuove e illuderti di scappare, correre e seminare dietro di te i fantasmi dei rimorsi e tutte quante le paure di una vita persa nel dispiacere.
“Grazie ragazzina. Hai visto che belle? Ho un paio di scarpe nuove questa notte.” “Sì, le stanno bene, ma non deve ringraziarmi. Mi chiamo Francesca. Buona notte a lei.” “Buona vita a te cuore nobile, e buona strada ai miei piedi, che stanno nuovamente al caldo.” E su quelle poche parole, entrambi, dopo un ultimo scambio di sorrisi, si congedarono, incamminandosi in opposte direzioni, anche se durante quella notte, più volte, si ricordarono l’uno dell’altra, in quello che era stato il loro primo incontro, nel cuore di una serata speciale, in mezzo al freddo dell’inverno e con un paio di scarpe nuove ai piedi di un funambolo della notte, per provare a sfuggire al dolore di una vita al buio e senza più gloria.
Gianfranco Iovino- >Sito ufficiale
09/02/2014 – Racconto vincitore nella sezione Racconti Brevi inediti al Concorso Internazionale “Profumo di Marzo” Città di Arona